Tolkien a 50 anni dalla morte: un lascito cristiano anzi cattolico
di Redazione Sito · Pubblicato · Aggiornato
Tolkien a 50 anni dalla morte: un lascito cristiano anzi cattolico
Esattamente cinquant’anni fa, il 2 settembre del 1973, moriva in Inghilterra il celebre accademico e scrittore John Ronald Tolkien. Importante studioso della lingua inglese antica, Tolkien è conosciuto principalmente per essere l'autore di tre capolavori della letteratura fantasy, Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e Il Silmarillion. Anche se mezzo secolo è ormai trascorso dalla sua scomparsa, le opere che ci ha lasciato Tolkien possono e devono essere considerate a pieno titolo tra i grandi classici della letteratura di ogni tempo. Il fluire delle stagioni, grazie anche al grande successo di pubblico, incrementato dalle versioni cinematografiche dei suoi libri, non ha alterato di un grammo l’attualità del messaggio che sta alla base dell’opera letteraria di Tolkien, la fede. Quella fede cattolica che Tolkien cercò in tutti i modi di custodire e lasciare in eredità ai figli, quella stessa fede da lui ricevuta dalla madre, che per questo ebbe a patire molte sofferenze fino alla prematura morte, è perfettamente rintracciabile nella storia religiosa del suo Paese natio, dai monaci santi del Medioevo ai martiri che avevano reso la loro testimonianza fino all'effusione sangue sotto i regni di Enrico VIII, Elisabetta I e sotto la dittatura di Olivier Cromwell.
«Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi... Nel regno di Dio la presenza di ciò che è più grande non schiaccia ciò che è più piccolo. L’Uomo redento è ancora uomo. Il Racconto, la fantasia, continuano ancora, e dovrebbero continuare. L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”. Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, deve soffrire, sperare, e morire; ma ora può percepire che tutte le sue predisposizioni e facoltà hanno uno scopo, che può essere redento. Così grande è stata la liberalità con cui è stato trattato che ora egli può, forse, a ragion veduta supporre che nella Fantasia può effettivamente assistere al germogliare e al molteplice arricchimento della creazione».
Con queste parole Tolkien ha scritto dell’intimo rapporto esistente tra la creazione fantastica del suo mondo leggendario e la realtà della salvezza cristiana. La chiave religiosa, al di sopra di ogni altra lettura che tenta di ridurne l’opera o di adattarlo al politicamente corretto dei nostri tempi, resta infatti la migliore per comprendere la sublime e profonda bellezza che ci ha lasciato in eredità il professore di Oxford. Quando il padre gesuita Robert Murray gli scrisse d’aver trovato la sua storia profondamente cattolica, nonostante Dio non fosse citato neppure una volta, Tolkien ne fu immensamente consolato:
«Mio caro Rob, mi ha specialmente rallegrato quello che tu hai detto […] e hai rivelato persino a me stesso alcune cose del mio lavoro. Penso di sapere esattamente che cosa intendi con dottrina della Grazia; e naturalmente con il tuo riferimento a Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità. Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. […] Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so».
Nelle sue opere Tolkien fa emergere in modo chiaro e senza possibili fraintendimenti una sua propria visione teologica della storia, che riprende la concezione di sant'Agostino delle due città: la Città terrena, opera degli uomini in cui agiscono le forze delle tenebre, e la Città di Dio, la vera meta verso la quale indirizzare attese, sforzi e speranze. È da sottolineare che sant'Agostino si trovò a vivere al confine tra il crepuscolo di un mondo antico un tempo grandioso e l'alba di una nuova era dai contorni ancora incerti, e insegnò che la storia è guidata dalla Provvidenza e che quindi ogni avvenimento – dalla piccola vicenda personale alle grandi svolte dell'umanità – possiede un significato che dissipa l'oscurità e sorregge le forze dell'uomo che lotta per il bene. Le rovine, i numerosi segni di civiltà cresciute, ascese a grandezza e poi irrimediabilmente finite e dimenticate costellano ovunque la Terra di Mezzo, ricordandoci la caducità della Città terrena e la grandezza della storia, in cui operano forze più grandi e importanti degli uomini.
Per vivere pienamente questa storia, per affrontare questo viaggio ricco di insidie, è pertanto necessario tutto l’eroismo che possediamo, secondo la concezione impressa da Tolkien: non si tratta dell’eroismo della forza, del comando, dell’orgoglio che è proprio dei "grandi", ma dell’eroismo dell’amore, dell’amicizia e del sacrificio in cui eccellono i "piccoli", gli stessi del Vangelo, coloro che sovente sono scordati nelle grandi cronache. A questo proposito viene naturalmente da pensare alle parole di uno degli autori più cari al professore di Oxford, G.K.Chesterton: «È assolutamente necessario essere un uomo buono: avere il senso dell'amicizia e dell'onore e una tenerezza profonda. Soprattutto è necessario essere apertamente e indecorosamente umani, confessare appieno tutte le pietà e le paure primordiali di Adamo».
Oltre all’eroismo, l’altra virtù che Tolkien ci invita a cercare e coltivare senza mai scoraggiarsi è quella della bellezza, segno visibile della grazia. La bellezza trova la sua origine e la sua dimensione naturale in Dio, rendendo presente e visibile nelle creature e nella creazione tutta la bellezza di Dio. La bellezza per Tolkien è quella della teologia medievale: come un riflesso, come una traccia, ci conduce a Dio, ci aiuta a conoscerlo meglio, è luce della forma e splendore della verità. Nell’ammirare e contemplare lo spettacolo offerto dalla natura, nella bellezza di un bosco, di una cascata, dei fiori, delle montagne e delle piante, nell’ammirazione per le cose ben fatte dei nani o degli hobbit, non è impresa difficile rintracciare con chiarezza l’amore per questa bellezza che ci può ricondurre a Dio e salvare il mondo. Questa bellezza, come dimostrano le tante sofferenze che affliggono la Terra di Mezzo, i mille perigli e la fatica del cammino di rinuncia di Frodo, la triste condizione dell’esilio di Aragorn e la sua lotta per affermare la giustizia e il diritto, non prescinde dal problema del male, è visibile e presente come grazia.
La terza e ultima virtù che opera nei racconti di Tolkien è quella della pietà: quella stessa forza misteriosa che ferma la mano di Bilbo quando, all'inizio della storia, potrebbe facilmente uccidere Gollum e fa diventare quell'atto di pietà il segno visibile dell'opera della Provvidenza che sa condurre, per vie misteriose, ogni nave al giusto porto nel tempo fissato. Gandalf conversando con Frodo offre un giudizio nitido su questo argomento della pietà, della vita, della morte, sostenendo che l’uomo non è il padrone della vita e della morte e non può elargire morte e giudizi, se una persona debba vivere oppure no. Allora l’uomo – o lo hobbit in questo caso – deve essere propenso alla pietà, alla misericordia e al perdono, perché non è in grado di vedere tutte le conseguenze che può portare una sua decisione definitiva come quella di uccidere Gollum. Tutto Il Signore degli Anelli è pervaso dal senso della fragilità umana che solo in Dio trova compimento e appoggio, che solo in Dio trova vera realizzazione.
Davvero molti altri sono gli spunti che potrebbe fornire Tolkien e la sua opera... per fortuna il viaggio continua!
Elletì