XXII domenica del Tempo Ordinario: Gesù cerca seguaci vivi e coraggiosi per seguirlo
di Redazione Sito · Pubblicato · Aggiornato
XXII domenica del Tempo Ordinario: Gesù cerca seguaci vivi e coraggiosi per seguirlo
Anno A. Letture: Geremia 20,7-9; Salmo 62; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27.
In quel tempo (...). Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Un avvio così leggero e liberante: se vuoi venire dietro a me. Se vuoi: farai come vorrai, andrai o non andrai con lui, il maestro degli uomini liberi, nessuna imposizione. Ma le condizioni sono da vertigine. La prima: rinnegare se stessi. Un verbo pericoloso se capito male. Non significa annullarsi, diventare sbiadito o incolore. Il maestro non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dai talenti realizzati, seguaci vivi e coraggiosi. Lo Spirito cerca e crea discepoli geniali. Rinnegare se stesso significa: non sei tu il centro dell’universo, della famiglia, della comunità, e tutti a servirti per darti le gratificazioni di cui hai bisogno.
Rinnega la concupiscenza di essere un Narciso allo specchio: tu sei il filo di un meraviglioso arazzo, piccolo, unico, insostituibile. Martin Buber riassume così il cammino dell’uomo: “a partire da me, ma non per me”. Perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. La seconda condizione: prendere la propria croce. Immagine che abita gli occhi di tutti, che pende al collo di molti, che segna vette di monti, incroci, campanili, ambulanze, che abita i discorsi come sinonimo di disgrazie e di morte. Ma il suo senso profondo è altro.
Un destino comune lega colui che è chiamato ad essere servo della Parola, il profeta, e il discepolo di Gesù: l’esperienza di un rifiuto, lo scandalo di un apparente fallimento, la debolezza di una promessa di vita che si realizza passando attraverso una morte. Potremmo cogliere in questa profonda continuità uno dei temi della liturgia della Parola di questa domenica. La drammatica crisi che sorprende Geremia nel suo ministero (Ger 20,7-9) è inscritta nella vocazione di ogni profeta: il profeta è coinvolto con la Parola che annuncia. La parola di Dio è come una spada che smaschera l’ingiustizia, la violenza, l’oppressione.
Il profeta deve gridare questa parola: «quando parlo devo gridare – dice Geremia – devo urlare: “Violenza! Oppressione!”» (v. 8). Ma, ad un certo punto, il profeta stesso è chiamato a lasciarsi trapassare da questa spada, a sentire che questa parola brucia dentro di sé, a provare quasi vergogna per questa parola che gli crea solo sofferenza: «la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno» (v. 8). Geremia ha avvertito la tentazione di abbandonare tutto, di far tacere questa parola, ma non vi è caduto perché lo Spirito, che lo divorava con il suo ardore, non gli ha permesso di rimanere silenzioso: «nel mio cuore c’era come un fuoco ardente… mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (v. 9).
Così avviene anche per il discepolo di Gesù: colui che è chiamato a seguire Gesù, intraprende un cammino che passa attraverso l’esperienza del rifiuto e della contraddizione, poiché la logica che testimonia non è secondo il mondo. Questo è stato il destino di Gesù stesso e il discepolo non lo può mai dimenticare: «Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto… e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16,21). Solo conformandosi al suo Signore, il discepolo può giungere a «pensare secondo Dio» (v. 23), a obbedire alla sua parola e compiere la sua volontà. Paolo in Rm 12,2 lo ricorda con chiarezza: «non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto»
padre Ermes Ronchi