Un sacerdote che non si è piegato: il beato don Titus Zeman
di Redazione Sito ·
di Luciano Casolini – 30 Gennaio 2025
Abbiamo ricordato nei giorni scorsi alcuni dei martiri cattolici che nei campi di sterminio della Germania nazista diedero testimonianza della loro indussolubile fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, vogliamo presentare quest’oggi anche un’altra bella figura, vittima di un regime di un altro colore ma non per questo meno crudele e sanguinario. Un beato non particolarmente noto, ma che, a mio giudizio, ha lasciato un’ impronta di fede che andrebbe conosciuta e riscoperta.
L’8 gennaio scorso, infatti, la Chiesa ha celebrato la memoria liturgica del Beato don Titus Zeman, sacerdote salesiano, nato nel 1915 nei pressi di Bratislava e ivi deceduto nel 1969.
Ordinato sacerdote a Torino nel 1940, esercitò il suo ministero e quello di insegnante nella natia Cecoslovacchia fintanto che, con l’istaurarsi del regime comunista di stampo sovietico nel 1945, fu costretto alla semiclandestinità e alla perdita della docenza.
“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16).
Furono queste parole, durante una celebrazione eucaristica, a spingerlo a realizzare la rischiosa attività di preparare il passaggio clandestino, attraverso il confine tra la Slovacchia e l’Austria, organizzando due spedizioni per oltre trenta giovani salesiani per farli espatriare fino a Torino e consentire loro di proseguire gli studi in seminario.
Alla terza spedizione, cui presero parte anche alcuni presbiteri diocesani perseguitati dal regime, venne arrestato con la maggior parte dei componenti del gruppo. Fu condannato a 25 anni di carcere durissimo, accusato di tradimento, torturato, bollato come “uomo destinato all’eliminazione”.
Subì indicibili privazioni materiali e psicologiche, percosse, dovette svolgere i lavori forzati, vivere in isolamento e costretto al digiuno. Addirittura fu costretto a triturare, a mani nude, i minerali di uranio.
Il 10 marzo 1964, in condizioni fisiche più che precarie, lasciò il carcere in regime di semilibertà, ma, trascorsi poco meno di 5 anni, rese la sua anima a Dio, ormai sfinito dai patimenti subiti.
Visse il suo calvario con grande spirito di sacrificio, senza tentennamenti, testimoniando con forza la sua incrollabile fede, perdonando i suoi aguzzini, offrendo la propria vita e le proprie sofferenze per le vocazioni, accettando sempre la divina volontà in umiltà con fede, speranza e pace interiore.
Il suo fulgido esempio di martire rimane pietra viva nella Chiesa di oltre cortina che ebbe a versare il sangue di tanti fedeli consacrati e laici per la loro appartenenza alla comunità dei credenti.
Papa Francesco ha voluto elevarlo alla gloria degli altari il 30 settembre 2017.