La carità di San Martino (e il suo mezzo mantello)
di Redazione Sito ·
di Luca T. – 11 Novembre 2024
Fu un incontro inaspettato a cambiare dal giorno alla notte la vita di San Martino di Tours, il santo vissuto in Francia circa 1700 anni fa che la Chiesa celebra l’11 novembre. Era già cristiano ma non ancora battezzato, aveva fatto una rapida carriera nell’esercito imperiale questo giovane, nativo della Pannonia (odierna Ungheria), e intorno ai venti anni aveva raggiunto il grado di “circitor”, cosa che gli garantiva una paga considerevole ma lo obbligava a sovraintendere alla ronda notturna, ispezionando le porte e i posti di guardia.
Suo padre gli aveva posto il nome di Martino, Piccolo Marte, in omaggio al dio romano della guerra. Sperava probabilmente che il figlio avrebbe seguito le sue orme, divenendo a sua volta militare di carriera, e che forse, chissà, sarebbe passato alla storia per le imprese eroiche compiute sul campo di battaglia. Non aveva però fatto i conti che con il Dio delle sorprese, che non cessa mai di chiamare alla conversione e attirare ogni uomo verso di sé per farne strumento del suo amore e della sua misericordia.
E così avvenne anche al nostro Martino, in una gelida notte di inverno, mentre spirava un vento glaciale. In sella al suo cavallo Martino era impegnato nel suo solito giro di ronda, quando davanti ad una delle porte della città di Amiens incontrò un pover’uomo mezzo nudo e intirizzito dal freddo. Il poveretto invocava aiuto dai pochi passanti, che però lo ignoravano e si affrettavano a tornare alle loro abitazioni. Le sue grida raggiunsero anche Martino. Egli non aveva neppure una moneta da donare allo sconosciuto, avendo già distribuito con larghezza la sua paga ai bisognosi incontrati in precedenza. Davanti a quella vista, senza pensarci troppo, il giovane ufficiale con un colpo di spada tagliò in due il suo caldo mantello militare e condivise la veste col povero.
Il regolamento militare impediva a Martino di donare al povero l’intero mantello, che a quei tempi era foderato da un lato di calda pelliccia, perché l’uniforme era proprietà dello Stato. Poiché egli poteva disporre solo di una metà di esso, Martino donò comunque la parte di cui poteva privarsi, seguendo l’insegnamento del Maestro: «Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio». La clamide, ossia il mantello donato da Martino, diviene così segno di condivisione e di dignità. Anche il gladio, simbolo per eccellenza di guerra e violenza, diventa mezzo efficace di carità fraterna. Ancora oggi una cappella sorge a ricordare il luogo dove secondo la tradizione avvenne quest’incontro.
Questo gesto semplice ma di profonda carità di Martino è divenuto famoso e lungo i secoli ha fatto la delizia degli artisti, ma ancor più quella dei cristiani, che vi hanno visto quasi un riflesso della parola di Gesù all’ultimo giudizio: «Quando avete fatto ad uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». È una parola stupenda e formidabile: Gesù si mette al posto di ogni uomo sofferente; chi soccorre lui, soccorre Gesù stesso, come ci ricorda il sogno che Martino ebbe la notte seguente. Gesù avvolto nel suo mezzo mantello, lo indicava agli angeli dicendo: “Anche se non mi conosce, mi ha rivestito del suo abito“, un chiaro riferimento al Vangelo di Matteo.
La fama del gesto compiuto da Martino in quella notte lontana ha oltrepassato i secoli, e ancora oggi interroga ciascuno di noi ed è motivo di ispirazione e sprone ad imitarlo. Questo giovane cavaliere del tardo Impero ricorda molto un altro grande santo, San Francesco d’Assisi. Entrambi uomini d’arme, Martino e Francesco hanno lasciato tutto per seguire Cristo, abbandonando la famiglia, gli agi, la posizione sociale per dedicarsi ai poveri e all’annunzio della Buona Novella, in luoghi diversi, in epoche diverse. Entrambi hanno vissuto il Vangelo “sine glossa” e ci fanno gustare il sapore e la bellezza della carità cristiana, la delizia della gioia che deriva dal loro imitare quanto ha fatto Gesù. A noi non che resta che cercare di imitare il loro esempio che altro poi non è che quello del Maestro.