Il santo del mese – Santa Teresa d’Avila
di Redazione Sito · Pubblicato · Aggiornato
Il santo del mese - Santa Teresa d'Avila
Vergine e Dottore della Chiesa - (15 Ottobre)
di Antonio Maria Sicari, tratto dalla collana I Santi nella Storia
Teresa di Gesù (de Cepeda y Ahumada), nata ad Avila (Spagna) nel 1515, e morta ad Alba de Tormes nel 1582, è universalmente riconosciuta come maestra di dottrina e di esperienza spirituale, al punto che è stata la prima donna della storia alla quale è stato riconosciuto (da Paolo VI, il 27 settembre 1970) il titolo di dottore della Chiesa (pochi giorni dopo lo stesso riconoscimento fu dato a santa Caterina da Siena). Ella stessa ci ha lasciato il racconto della sua vita, ma l’ha narrata come storia di un "incontro d’amore" tra lei e Cristo.
La sua infanzia fu segnata dal dono di una nativa familiarità col mondo di Dio, tanto che il pensiero del paradiso la faceva fremere di gioia. Celebre è rimasta la sua fuga da casa, in tenera età, intrapresa col desiderio di "voler vedere Dio". Questo primo ardore si offuscò, tuttavia, al tempo dell’adolescenza, quando Teresa – affascinata dai doni di natura e di grazia che riconosceva in se stessa e dagli ingenui corteggiamenti che suscitava – si lasciò "distrarre" dalla sua innocente passione per Dio. Aveva, però, maturato il convincimento interiore che Dio meritava "tutto" e che solo il cielo contava davvero. Così, a vent'anni, pur sentendosi attratta dalla vita brillante che si svolgeva tra le mura di Avila (mura che la facevano rassomigliare a uno splendido castello), decise di consacrarsi a Dio, fuggendo impetuosamente a "nascondersi" nel monastero carmelitano della sua città. Pensava d’aver così risolto il suo conflitto interiore, accettando di vivere quaggiù in un "purgatorio" (così giudicava allora il monastero) pur di poter poi meritare il cielo. Ne restò doppiamente sorpresa: il monastero non era così terribile come s’era immaginata, anzi vi sperimentava una grande pace, e la gioia non le mancò mai. Tuttavia il suo turbamento non cessava: quel monastero aveva un numero elevatissimo di monache (quasi cent’ottanta) ed era una vera cittadella, molto frequentata da chi voleva intrattenere con le religiose rapporti di amicizia, non privi di qualche mondanità.
Teresa, poi, era ricercatissima, a causa del suo fascino personale, accresciuto dal fatto che ella viveva un’intensa vita interiore, e molti desideravano la sua amicizia, per esserne spiritualmente aiutati e guidati. Così ella si trovò invischiata in uno strano conflitto: da un lato sentiva il bisogno insopprimibile di essere tutta e solo di Dio, dall'altra percepiva la bellezza dell’amicizia umana e dei suoi legami. Teresa sfuggiva con orrore da tutto ciò che avesse anche l’ombra di peccato, ma non si sentiva "intera", non si sentiva completamente vera, anche se tutti erano pronti a giurare che quella monaca affascinante era proprio "una santa". Ma lei era lacerata tra l’amicizia di Dio (che esperimentava dolcissima e appagante nella preghiera) e quella delle creature, alimentata in troppo frequenti, anche se buone, conversazioni.
La "conversione definitiva" – così la definì Teresa stessa – avvenne nel 1554, quando ella stava per toccare i quarantanni. Gesù le fece "esperimentare" con ogni evidenza (attraverso un’inondazione di grazie interiori, ma anche di visioni) che egli era "veramente Dio" e "veramente uomo": nella sua stessa persona c’erano la sintesi e la soluzione del conflitto che Teresa aveva fino ad allora vissuto. Affezionandosi e abbandonandosi a Gesù con tutto il cuore e imparando solo da Lui – come da un "libro vivente"– che era possibile amare Dio solo "con tutto il cuore, l’anima e le forze" e ricevere da Lui in dono tutto il resto, anche la bellezza del creato e il calore dell’amicizia umana. Questo continuo abbandono, poi, si chiamava "preghiera": una preghiera fatta non solo di "atti" (anche se questi restano importantissimi), ma estesa a tutta la vita, in modo che respirare (ma anche agire, lavorare, pensare, desiderare, gioire, ecc.) e pregare fossero la stessa cosa.
Nel 1562 Teresa accettò il pressante consiglio di alcune consorelle che le chiedevano di fondare un "piccolo conventino", abitato da poche suore, tutte dedite a questa esperienza di preghiera totalizzante. Nacque così ad Avila il primo monastero di carmelitane scalze (cioè "riformate", segnate da una vita più austera e ritirata) che, agli occhi di tutti, era un vero e proprio "angolino di cielo". La fama di Teresa come "madre e maestra", capace di far innamorare le anime di Dio, si diffuse rapidamente; le vocazioni cominciarono ad affluire numerose ed ella si trovò obbligata (anche per ordine dei suoi superiori) a diventare fondatrice. Tutta perduta in Dio e nella sua grazia, ma anche sempre vivace e abile nell'intraprendere progetti, nel tessere rapporti, nell'intrattenere profonde relazioni di amicizia, si trovò a percorrere l’intera Spagna e a disseminarvi diciassette piccoli monasteri, che subito diventarono centri di preghiera e di vita mistica. Teresa li immaginava come "piccoli cenacoli" dove le monache vivevano in compagnia di Cristo (e nutrite della sua eucaristia); voleva che tutta la loro preghiera fosse finalizzata alle "necessità della Chiesa" allora particolarmente appesantita e lacerata da scismi e da guerre di religione, e dai gravi problemi posti dalla violenta conquista del Nuovo Mondo. Nel corpo ecclesiale, essi dovevano assomigliare al cuore che non fa mai mancare il sangue necessario alla vita, cioè l’amore. A questo scopo Teresa esigeva non soltanto la serietà e l’austerità, ma anche uno stile di vita capace di dolce cordialità nei rapporti tra le persone.
Per dare un aiuto alle sue monache e per estendere la forza della loro preghiera contemplativa all'azione apostolica e missionaria, lavorò per "riformare" il ramo maschile dell’Ordine carmelitano, riuscendo a coinvolgere nella sua impresa quel Giovanni della Croce, che sarebbe diventato santo e dottore della Chiesa. Per rispondere alle richieste delle sue monache e dei suoi confessori, dovette dedicarsi anche a una intensa attività magisteriale, affidata a scritti, occasionali, ma di rara profondità, che oggi sono patrimonio dottrinale di tutta la Chiesa. Di particolare valore è l’Autobiografia, definita da lei "libro delle misericordie del Signore", nella quale Teresa mostra come l’esistenza di una persona (la sua, ma anche la nostra se la leggessimo in profondità) può essere raccontata come "storia di salvezza", come storia di un dialogo tra l’uomo e Dio, come "storia di preghiera". Nel suo Cammino di Perfezione, invece, Teresa espose la maniera con cui si può educare un’intera comunità, facendola diventare "comunità orante", comunità che realizza concretamente e quotidianamente tutte le domande del "Padre nostro". Scrisse la sua opera più bella e decisiva nell'ultimo periodo della sua vita, quando – spinta sempre dall'obbedienza – compose di getto il Castello interiore, che ancora oggi è considerato uno dei vertici di ogni letteratura mistica. In esso l’uomo viene descritto come un castello, al cui "profondo centro" abita Dio stesso: un castello che, a volte, sembra cadente e disabitato, perché l’uomo s’è ridotto a vivere al di fuori come un mendicante. Ma basta superare la soglia (e la "porta" è, per tutti, la preghiera) per ritrovare la possibilità di attraversare tutte le innumerevoli e meravigliose "dimore del Castello", fino a raggiungere Dio stesso. E quando l’anima entra nel più intenso rapporto d’amore con Dio, possibile su questa terra – Teresa lo chiama significativamente "matrimonio spirituale" – capisce che Dio non intende "vezzeggiare" nessuno, ma dona le persone a lui più care (come ha fatto con suo Figlio) al mondo, affinché il mondo possa essere salvato. Più narrativo, ma non meno utile, è il Libro delle fondazioni, in cui Teresa stessa ha voluto raccontare la storia dei monasteri da lei fondati, soffermandosi a lungo sulle vicende vocazionali delle persone – spesso molto giovani – che accorrevano per coinvolgersi nella sua santa avventura. Nel 1582, durante uno dei suoi viaggi, Teresa morì ad Alba de Tormes, stremata dalle fatiche, esprimendo in un desiderio e in un’unica preghiera i due vertici di maturazione ai quali tutto il suo itinerario mistico l’aveva condotta. Sul letto di morte la udirono mormorare umilmente: "Dopo tutto, Signore, sono figlia della Chiesa!", e poi con santa impazienza: "Finalmente, o Sposo mio, è ora che ci abbracciamo!".