Le pestilenze del passato, l’esempio dei santi
di Redazione Sito · Pubblicato · Aggiornato
Le pestilenze del passato, l'esempio dei santi
Abituati a vivere nell'epoca dove ormai signoreggiano la tecnologia e la scienza, saremmo forse portati a credere che la difficile situazione che stiamo sperimentando in prima persona sia una sorta di nemesi di un antico passato, oscuro e terribile, che un arcano disegno ha fatto scatenare con estrema virulenza ai nostri giorni, sconvolgendo le nostre esistenze.
Ma, alzando per una volta lo sguardo, poiché le epidemie non sono certo una novità nella storia e hanno da sempre accompagnato la vita dell’uomo, ci possiamo chiedere: quali esempi ci vengono dai santi del passato? Di seguito abbiamo provato a ricordarne alcuni che chi scrive ritiene particolarmente significativi: scopriremo le figure di quattro grandi santi, tutti protagonisti assoluti della loro epoca, che con la loro vita spesa al servizio del Signore e del prossimo possono magari aiutarci a vivere meglio quest'emergenza.
Nel biennio 589-590, il nostro Paese era sconvolto da gravi disastri naturali e dalle violenze dei Longobardi, tristi avvenimenti che non pochi fedeli interpretavano come castighi divini per il dilagare dei peccati. Nell’Urbe il fiume Tevere era esondato, provocando vittime e danni ingenti; non solo, si era anche diffusa una micidiale epidemia di peste. Tra le vittime del morbo vi era stato papa Pelagio II, che morì il 7 febbraio 590. A succedergli sul soglio di Pietro era stato eletto colui che sarebbe passato alla storia come San Gregorio Magno, strappato al monastero da lui stesso fondato sul Monte Celio. In un primo tempo Gregorio aveva cercato di resistere all'elezione, ma alla fine aveva dovuto cedere alle pressioni del Senato e del popolo, in attesa della ratifica imperiale che sarebbe arrivata da Costantinopoli l’anno successivo. Il nuovo pontefice tuttavia non rimase con le mani in mano e il 29 agosto 590, prima ancora di iniziare il suo ministero, tenne un’omelia in cui esortò i fedeli alla penitenza e alla conversione. Dato che la situazione non accennava a migliorare, il Pontefice, chiedendo l’aiuto di Dio, organizzò per tre giorni consecutivi solenni processioni verso la basilica di Santa Maria Maggiore, ordinando a tutto il popolo di recitare le litanie suddiviso in sette diversi cori (clero, monaci e abati, monache e badesse, bambini, uomini adulti, vedove, donne sposate). Ben ottanta persone, nel breve giro di un’ora, morirono per il morbo, ma Gregorio invitò i fedeli a continuare la supplica. Alla fine, mentre attraversava l’odierno ponte Sant’Angelo, il Pontefice vide l’Arcangelo Michele, in cima all'allora Mole Adriana, nell’atto di riporre la spada nel fodero, segno dell’imminente fine della pestilenza.
Facciamo ora un balzo di circa mille anni e spostiamoci a Milano. Il nostro pensiero si volge subito alla cosiddetta «Peste di San Carlo», in cui la carità di San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, raggiunse vette altissime. L'epidemia era scoppiata nel 1576, quando l'arcivescovo si trovava fuori città. Mentre Milano veniva abbandonata dal governatore spagnolo, dai nobili e dai maggiorenti, San Carlo si precipitò a farvi ritorno, mettendo a disposizione tutti i suoi beni per gli ammalati e i bisognosi. Lui stesso andava nelle case e nel lazzaretto a portare conforto ai moribondi. Alla raccomandazione di osservare le necessarie misure igieniche, San Carlo univa la consapevolezza che solo Dio potesse liberare la città. Così, questo pastore instancabile non esitò a chiamare sacerdoti dai paesi vicini, raccomandò di non far mancare al popolo il conforto dei sacramenti, promosse la preghiera, il digiuno e la penitenza. A tale scopo, il santo fece erigere in mezzo alle strade una ventina di croci presso le quali veniva celebrata l’Eucaristia. Gli abitanti, magari in quarantena, potevano parteciparvi anche affacciandosi dai balconi. Notissimo è infine l’episodio della processione che San Carlo guidò, a piedi nudi, portando una croce lignea in cui era stata posta la reliquia del Santo Chiodo, per impetrare la fine della peste, che effettivamente regredì.
Torniamo di nuova a Roma, dove nel febbraio 1591 scoppiò un’epidemia di tifo petecchiale: in breve tempo ben sessantamila persone persero la vita, inclusi ben tre papi (Sisto V, Urbano VII e Gregorio XIV). Anche il giovanissimo Luigi Gonzaga, figlio di Ferrante, primo marchese di Castiglione, che aveva rinunciato ai suoi titoli e alla sua eredità, si prodigò intensamente ad assistere i più bisognosi, insieme a San Camillo de Lellis e ad alcuni confratelli gesuiti. L’Ordine non era particolarmente contento dello zelo con cui il giovane s’impegnava in questa missione, perché su di lui si erano fatti grandi progetti, forse anche di affidargli in futuro il comando della Compagnia. San Luigi dovette così dedicarsi solo ai casi con nessuna evidenza di contagiosità, ma un giorno, trovato in strada un appestato, se lo caricò in spalla e lo portò all'ospedale della Consolazione. Pochi giorni dopo morì, all'età di soli 23 anni. Visse la malattia in modo eroico, senza mai lamentarsi e affidando la sua anima al Signore che lo aveva chiamato al suo servizio quando era ancora giovinetto. Quando coloro che lo assistevano gli avevano domandato: «E bene, fratel Luigi, che si fa?», egli rispose: «Laetantes imus, laetantes imus», ossia «me ne vado allegramente dalla Terra al Cielo». San Luigi non morì però prima di ricevere l’ennesimo attestato di stima: papa Gregorio XIV in persona gli fece pervenire la sua benedizione apostolica e l’Indulgenza plenaria. La sua umiltà non fu certo scalfita neppure da quest'ultima tentazione: Luigi «corse con le mani a ricoprirsi il volto», tanta la vergogna che provava.
Sul principio dell'agosto 1854 un'epidemia di colera colpì duramente Torino, allora capitale del Regno di Sardegna. Accanto alle precauzioni sanitarie, San Giovanni Bosco, che aveva preannunziato lo scoppio del morbo fin dal maggio precedente, si preoccupò innanzitutto dei fanciulli dell’Oratorio. Quando i giovani gli chiesero cosa dovevano fare per salvarsi dal contagio, egli rispose: «Prima di tutto, vivere in grazia di Dio; poi, portare al collo una medaglia che io benedirò e darò a tutti, e recitare un Pater, Ave e Gloria ad onore di San Luigi». I casi di colera salirono ben presto a cinquanta al giorno, in tre giorni superarono addirittura i millequattrocento. La zona più colpita fu proprio quella di Valdocco, dove si trovava appunto l'Oratorio; mentre molte famiglie furono interamente distrutte, dei giovani e del personale dell'Oratorio nessun fu contagiato, nonostante una gran parte dei ragazzi, in tutto ben 44, si fosse offerta spontaneamente di andare ad assistere i colerosi nelle case e nei lazzaretti. Tra di essi vi era anche il giovanissimo Domenico Savio, destinato a morire giovane e alla gloria degli altari. Anche in questo caso don Bosco, che andava ripetendo: «Se non farete peccati, io vi assicuro che nessuno sarà toccato», fu veramente profeta.
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