Pontenure e le epidemie: la «peste nera» del 1348
di Redazione Sito · Pubblicato · Aggiornato
Pontenure e le epidemie: la «peste nera» del 1348
Un viaggio nella storia alla riscoperta delle epidemie che nei secoli passati hanno colpito il nostro paese
«D'onde è la peste, fuggi, e torna tardi, con pregar sempre Dio, che te ne guardi». Con queste poche ma assai eloquenti parole l'erudito piacentino Cristoforo Poggiali metteva in guardia i suoi lettori dalla terribile minaccia della peste, un morbo che al pari di molte altre malattie (tra le quali tifo, vaiolo, colera, morbillo, tubercolosi) ha colpito l’umanità fin dalla più remota antichità. Come ben sappiamo storia e letteratura abbondano di testimonianze sulle innumerevoli pestilenze che nei secoli hanno flagellato il genere umano, come per esempio le ulcere pustolose che colpirono gli egiziani secondo il libro dell'Esodo, il «morbo maligno» che si diffondeva nell'accampamento degli Achei cantato da Omero nell'Illiade, l’epidemia ateniese del 430 avanti Cristo descritta da Tucidide, la «peste antonina», diffusasi tra il 165 e il 180 dopo Cristo in tutto l'Impero romano, la peste di Giustiniano che VI secolo devastò l'intero bacino del Mediterraneo, della quale Paolo Diacono ci ha lasciato questo lugubre affresco: «Il mondo era ridotto al silenzio dei primordi. Nessuna voce nei campi, nessun fischio di pastori».
È però impossibile evitare di ricordare quella che può essere considerata l’epidemia per eccellenza, la più famosa e la più disastrosa di tutte... quella cosiddetta «peste nera», così chiamata per le macchie scure e livide di origine emorragica che si manifestavano sulla cute e sulle mucose dei malati, descritta anche da Boccaccio e da Petrarca, al quale strappò l’amata Laura. Un testimone d’eccezione, il notaio piacentino Gabriele Mussi, ci ha lasciato una dettagliata descrizione di questa pandemia, generatasi in Asia centrale durante gli anni Trenta del Trecento, che secondo alcune moderne stime uccise almeno un terzo della popolazione del Vecchio Continente, provocando verosimilmente quasi 20 milioni di vittime. Scrive Mussi nell'introduzione alla sua cronaca: «L’anno del Signore 1346 nelle parti orientali perirono di malattia non mai udita e morte improvvisa un’infinità di Tartari e di Saraceni. […] Le pestilenze e le morti studino tutti di far note coi loro scritti. Io poi perché piacentino, mi sono persuaso di scrivere maggiormente dei Piacentini, affinché quel che accadde in Piacenza nel 1348 sia noto a tutti».
Tra le prime vittime del morbo vi furono i tartari che assediavano la città di Caffa, allora importante base commerciale genovese nel Mar Nero. Decimati dalla malattia e incapaci di conquistare la città, i guerrieri delle steppe diedero vita a una forma di guerra batteriologica ante litteram: prima di levare l'assedio, infatti, scagliarono con le catapulte alcuni cadaveri infetti oltre le mura della città, diffondendo così il morbo tra i difensori. La pestilenza raggiunse ben presto Costantinopoli, Cipro, Alessandria e gli altri maggiori scali del Levante, prima di arrivare anche anche in Europa nell'ottobre 1347, quando giunsero nel porto di Messina dodici navi genovesi, provenienti proprio da Caffa, che trasportavano un carico di grano, ma soprattutto di topi, cadaveri e uomini in fin di vita. Ed erano proprio i topi i portatori del batterio della peste bubbonica, che nei cinque anni successivi raggiunse e spopolò l'intera Europa cristiana. Così scrive a riguardo nella sua cronaca il notaio piacentino, descrivendo l'arrivo a Messina delle galee genovesi: «Dopo che l’epidemia ci aveva raggiunto e di mille navi solo una decina ne erano rimaste, amici, congiunti e vicini ci vennero incontro da ogni luogo, a riceverci. Ahimè, noi, proprio noi portavamo i dardi della morte, e venivamo abbracciati e baciati e trattenuti. Con il nostro racconto, uscito dalla nostra stessa bocca, fummo costretti a diffondere il veleno».
Nell'estate del 1348 il contagio raggiunse anche Piacenza: un cittadino genovese tentò di sottrarsi alle durissime restrizioni sanitarie imposte dalle autorità cittadine e «si recò nei dintorni della città. Anche lui era colpito dalla disgrazia dell’epidemia. Quando la sua malattia fu manifesta, andò a trovare un uomo che lo assistesse in quella sua sventura e al quale era legato da vincolo di amicizia. Fu accolto ma morì poco dopo. E poco dopo ancora morì con tutta la sua famiglia e molti dei suoi vicini anche colui che lo aveva curato. Così, in pochissimo tempo la peste si diffuse e raggiunse Piacenza […] Ovunque si levavano pianti e lamenti. […] La morte mieteva vittime ed era così crudele che gli uomini potevano a malapena respirare. […] Un malato giaceva abbandonato nella propria casa. Nessun parente osava avvicinarglisi. Quelli che con lui avevano più stretti legami piangevano ma si tenevano in un angolo della casa. […] Abbiate pietà, abbiate pietà, ripeteva il mio amico, perché la mano del Signore mi ha toccato. Un altro gridava: o padre mio, perché mi hai abbandonato? Pensa che tu mi hai generato! Un altro ancora: o madre, dove sei, perché in questo momento sei così crudele con me quando ancora ieri eri così amorevole, tu che mi hai nutrito con il latte del tuo petto e mi hai portato nove mesi in grembo! E ancora: o voi, figli miei, che ho cresciuto nel sudore e nella fatica, perché fuggite? E mariti e mogli si accusavano reciprocamente: poveri noi che nella gioia godevamo del nostro».
Così prosegue il resoconto del notaio Mussi che ci restituisce senza tanti fronzoli l’incalzare furioso del morbo: «il malato giaceva nella sua abitazione solo con il suo tormento. Nessun parente osava avvicinarglisi, nessun medico osava varcare la soglia del suo domicilio; perfino il prete amministrò i sacramenti con gran terrore. Con suppliche strazianti i bambini invocavano i genitori, padri e madri i loro figli e le loro figlie, un coniuge l’aiuto dell’altro… invano! La morte mieteva vittime ed era così crudele che gli uomini potevano a malapena respirare. Quelli che erano ancora in vita non facevano altro che prepararsi alla propria sepoltura. E siccome veniva a mancare il terreno per le tombe si era costretti a scavare delle fosse anche sotto i portici e le strade dove mai prima di allora vi erano stati dei sepolcri».
Per quasi un secolo, dopo questa immensa strage, si ebbero, in Europa ed in Italia, nuove epidemie di peste, che non ebbero fortunatamente la violenza e la rapidità di propagazione della «peste nera». Per esempio, la peste ritornò ancora Piacenza nel 1374 contagiando due importanti personaggi: il nobile Pietro da Ripalta, illustre storico cittadino, e il più celebre dei pellegrini, San Rocco, originario della città francese di Montpellier. Quest’ultimo, di ritorno in patria dopo un pellegrinaggio a Roma, si era fermato a Piacenza per assistere le vittime dell’epidemia in corso, dedicandosi con sollecitudine alla cura degli appestati che erano ricoverati presso l’antico hospitale di Santa Maria di Betlemme. Rimasto a sua volta contagiato dal morbo, a dispetto del bene compiuto e dell’altruismo dimostrato, San Rocco venne cacciato dalla città e si ritirò in una grotta nei dintorni di Sarmato. Secondo un'antica tradizione, l’unico che gli rimase accanto, andando a trovarlo ogni singolo giorno, fu un cane. Impietosito dalla sua sofferenza, l'animale gli portava sempre un pezzo di pane, fino a quando, per intercessione divina, prese a sgorgare una fonte miracolosa (tuttora esistente a pochi metri dalla chiesa parrocchiale del borgo) grazie alla quale il Santo poté lavare le sue piaghe, guarendo infine dalla peste e divenendo uno dei principali patroni cui votarsi in caso di epidemia.
Poco o nulla purtroppo si ha da dire riguardo alla comparsa della «peste nera» a Pontenure: a quell'epoca infatti non era ancora iniziata la regolare compilazione dei registri canonici, prassi che iniziò soltanto nella seconda metà del Cinquecento, ma possiamo tuttavia notare che tra il 1348 e il 1356 vi fu una non casuale interruzione temporale nella stipula dei contratti e nelle investiture, come evidenziato dalle pergamene tuttora conservate presso il nostro archivio parrocchiale. Un nuovo periodo di interruzione nella stipula degli atti si verificò ancora tra il 1357 e il 1377, probabilmente a causa delle guerre e delle pestilenze che in quegli anni colpirono duramente anche il nostro territorio. Potrà essere inoltre interessante ricordare, in chiusura di questo nostro primo approfondimento, come già nel Cinquecento esistesse presso la nostra chiesa parrocchiale un altare, sia pure sconsacrato, dedicato ai Santi Cristoforo, Rocco e Sebastiano, protettori rispettivamente di guadi e ponti, di viandanti e pellegrini e invocati come protettori contro la peste. «A peste, fame et bello, libera nos Domine!», questa era la preghiera disperata che a quei tempi risuonava incessante nelle chiese di Europa.